Ginevra 4

....continua

il pomeriggio successivo Ginevra giunse alla panchina trafelata, aveva così atteso quel momento che quasi le toglieva il fiato. Sergio la salutò con il solito rispettoso sorriso, sedette accanto a lei ed iniziò subito il suo racconto.
"Sono stato l'unico figlio di una famiglia senza radici. Mi spiego meglio: durante la mia infanzia ci siamo trasferiti in continuazione, mio padre cambiava sede di lavoro spesso e, nonostante continuassimo a seguirlo, era un continuo gioco a rincorrersi, lui dietro alla sua ambizione, noi dietro a lui, per la maggior parte del tempo vivevamo lontani. Mia madre non ha saputo costruire, in nessuno di quei mille posti, legami degni di questo nome ed alla fine probabilmente non le interessava nemmeno più. Così si è legata morbosamente a me, non era tuttavia un amore da madre chioccia, ero suo complice, la maschera dietro alla quale nascondersi per affrontare il mondo. Mia madre era bella e si serviva di me, in questa nostra vita solitaria, come di uno scudo nei confronti di un universo maschile sempre pronto all'assedio.Così l'accompagnavo al cinema o a prendere il gelato, ma non vedevamo spettacoli adatti alla mia età, semplicemente quando voleva vedere un film mi trascinava con lei.
Questo padre assente era una figura mitologica, un Ulisse, un po' ne subivo il fascino, un po' lo odiavo perché quando finalmente arrivava scombinava i nostri equilibri, perché loro si lasciavano travolgere nuovamente dalla insaziabile sete l'uno dell'altro ed io venivo escluso. Poi mio padre comprese di non poter mirare oltre e finalmente ci fermammo, in tutti i sensi, scemarono tutti gli interessi, il loro reciproco, che evidentemente si nutriva della lontananza, ed il loro per me. Ma nel frattempo avevano fatto di me un essere solitario, senza amicizie ed inadatto a  fabbricarsene. Mi sentivo diverso dai miei coetanei. Così ho iniziato a leggere e i miei mi incoraggiavano e non trovavano nulla di sbagliato nel mio isolamento. Andavo a scuola e riuscivo a partecipare solo marginalmente ai giochi degli altri, avevo uno o due amici ma erano sempre loro a prendere l'iniziativa. Con le ragazze poi un'incubo, mi innamoravo perdutamente di quella che prendeva il mio stesso bus, della compagna di scuola di un'altra sezione, della sorella del mio compagno di classe ma frustravo ogni mio piano di approccio. Poi venne l'università e poi il lavoro. Conobbi una donna, Elisa, che si innamorò di me e seppe intuire la chiave per farmi trovare il coraggio per dichiararle il mio amore, mi sembrò di entrare in sintonia col mondo o forse lei sapeva farmi da tramite, furono anni felici. Poi lei avrebbe voluto dei figli ed io non mi sentii all'altezza, temevo di non essere in grado, di moltiplicare il disagio che io avevo avuto in eredità, di generare altra inadeguatezza. Il nostro rapporto si arenò. Il lavoro era fatto della solita sconsolante routine, un capo ottuso, arrogante, che sviliva ogni iniziativa .Nemmeno la lettura parve più regalarmi il piacere consolatorio che mi aveva sempre sostenuto. Così mi trasformai in una sorta di Bartleby lo scrivano e di "preferirei di no" in "preferirei di no" sono giunto qui, ora. Le biblioteche sono luoghi caldi in inverno, freschi in estate, il loro silenzio accogliente mi ha ridonato il conforto della lettura. L'isolamento della mia condizione mi pesa, ma in fondo mi sentivo un'isola anche quando vivevo secondo le regole del cosiddetto vivere civile"


continua

Commenti

Post più popolari